Questo è il mondo di Stefano Sollima anche se ACAB non è una serie di Stefano Sollima. Ha tutte le caratteristiche di asciuttezza nello stile, decisione nei dialoghi e ricercatezza nel look e nell’azione, ma è una serie autonoma, molto moderna. Del film del 2012 (che Sollima aveva diretto) questa serie ruba una cosa soltanto, forse la più importante: il punto di vista. ACAB è al tempo stesso sia totalmente dentro il reparto mobile, i suoi problemi e le sue questioni, partecipando della durezza di quella vita; sia totalmente fuori da esso, capace di prendere le distanze dalle soluzioni che i personaggi adottano a quei problemi, dalla loro violenza e dalla maniera in cui calpestano le regole in nome di una morale che, anche quella, non è approvata dalla serie. Non fa solo azione, sapendola fare e sapendola spettacolarizzare, ma sa come guardarla. È la maniera in cui Sollima ha rifondato questo genere ma qui siamo un passo avanti.
Com'è ACAB, la serie
Questo principio lo vediamo messo in pratica subito nella prima scena, quella di uno scontro durante una manifestazione nella Val di Susa. Un gruppo di NoTav più facinoroso attacca il reparto mobile che, senza muoversi, cerca di contenere gli eventi; quando però la situazione degenera, noi siamo con i poliziotti, non con i manifestanti (di cui non conosciamo le identità, le storie e quasi non vediamo i volti), e partecipiamo della paura e della tensione di quello che può accadere loro. Poi, in seguito a un incidente grave al capo del reparto, un gruppo di questi poliziotti fa qualcosa da cui prendere le distanze: con le armi, e in separata sede, si fa giustizia da sé contro un gruppo isolato di quei manifestanti. Per vendetta.
Esattamente questo è l’elemento di grande interesse di ACAB: i personaggi sono dei veri bastardi, dei cattivi di cui disprezziamo tutto, dai discorsi piccini e vittimisti che fanno quando iniziano le indagini su chi sia stato a picchiare e mandare in coma quei manifestanti, alle spiegazioni di come hanno coperto le loro tracce, fino ai maltrattamenti da nonnismi a quelli tra loro più dubbiosi su cosa fare riguardo a quest’indagine interna. È un gruppo di bastardi, però pieno di problemi, che seguiamo inevitabilmente sperando che si tirino in qualche maniera fuori dai guai, senza smettere di rimanere schifati dalla maniera in cui vivono, ragionano e agiscono.
È un ping pong ideologico, che porta il pubblico a comprendere un mondo senza bisogno di abbracciarlo, che lo porta a empatizzare con le parti più condannabili della società. Vediamo la vita privata di queste persone, cosa ha causato quel loro atteggiamento machista (il figlio del protagonista si rifiuta di incontrarlo e vuole dare al suo di figlio il cognome della madre), vediamo la disperazione di moglie e fidanzate, lo squallore della vita sessuale. Eppure, siamo con loro e, come in ogni buona serie tv contemporanea, l’esplorazione della parte oscura della società, e quindi degli uomini, è il tirante che tiene tutti avvinti.
Per fortuna c’è Marco Giallini, che ritorna a interpretare Mazinga 13 anni dopo ACAB il film, con la voce ancora più impastata. Giallini è tutto quello che il cinema italiano non ha mai avuto negli ultimi 40 anni e di cui avrebbe avuto molto bisogno: una faccia indurita da tutto, dotato di un’innata pericolosità in scena (quella dote di dare l’impressione al pubblico di stare per fare qualcosa di clamoroso in ogni momento) per il quale la pistola o il coltello sembrano il prolungamento naturale della mano. Giallini con la sigaretta in bocca, o Giallini in tenuta antisommossa che apostrofa con cattiveria i superiori, è un dono del cinema italiano all’umanità. Ogni commedia, in cui pure è molto bravo perché ha una grande vis comica, è un peccato che lo sottrae al cinema poliziesco, ai ruoli di criminale, di violento e di uomo indurito da tutto.
Dall’altra parte c’è Adriano Giannini, nuovo capo della squadra a cui appartiene Giallini, che arriva dopo il fattaccio a sostituire il capo colpito dalla granata in Val di Susa. E arriva con la nomea dell’infame, cioè di quello di cui non ci si può fidare. Viene dal “reparto rosa”, quello che, dal punto di vista della squadra mobile di Roma, non sa nemmeno cosa sia la violenza vera. In quel mondo, insomma, è meno di zero, non è un vero uomo e, nonostante il grado, nessuno lo ascolta. Se Giallini è un treno merci che viaggia alla massima velocità in una direzione, cioè verso i personaggi durissimi, Giannini è la parte complicata, quello che si capisce che ha un piede in due staffe. È parte integrante del reparto mobile, celerino che sa bene cosa implica il suo mestiere, ma anche persona che cerca di risolvere i conflitti senza violenza. A lui cui accade qualcosa che lo porta a cambiare (il cuore di ogni serie italiana: la trasformazione di un personaggio).
La serie è di Cattleya e si vede. È la società che ha creato la serialità moderna italiana con Romanzo Criminale - La serie e Gomorra - La serie, quelli che più di tutti hanno investito e lavorato per creare un look e uno stile del cinema criminale e poliziesco moderno italiano (sempre con Sollima, che qui è produttore). L’ideazione è di Filippo Gravino (con Carlo Bonini che aveva scritto il romanzo omonimo), uno dei più bravi in assoluto quando si parla di scrittura per lo schermo d’azione e criminale, con in curriculum Come pecore in mezzo ai lupi, Veloce come il vento, Il primo re, Fiore e La terra dei figli (e ovviamente qualche episodio di Gomorra).
E invece che ripassare su quanto di buono Cattleya e le serie di polizia e criminali moderne italiane hanno fatto in questi anni ACAB va avanti. Quella che ha scritto Gravino (con Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini) è una serie piena di dialoghi in cui l’azione (che non manca ed è fatta di grandi scontri) è funzionale alla sua attesa. Cioè, il fatto che sappiamo che ci sarà della violenza e che il primo episodio ci insegna subito che sarà filmata a dovere, senza risparmiare (da Michele Alhaique), rende possibile per la scrittura lavorare molto su quando l’azione non c’è ma sta arrivando, sull’attesa delle cariche, sulla quiete (più o meno) prima della tempesta. Lì ACAB vola molto alto. È, in un certo senso, la lezione di Antidisturbios, la serie tv spagnola di Rodrigo Sorogoyen, ma soprattutto la naturale evoluzione di uno stile di scrittura, di regia per la televisione (ma ormai anche per il cinema) e di recitazione che questo gruppo di persone, incluso Marco Giallini, che era già nella serie di Romanzo Criminale, ha fondato e sta portando avanti.
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Gabriele Niola
Nasce a Roma nel 1981, fatica a vivere fino a che non inizia a fare il critico nell'epoca d'oro dei blog. Inizia a lavorare pagato sul finire degli anni '00 e alterna critica a giornalismo da freelance per diverse testate. Dal 2009 al 2012 è stato selezionatore della sezione Extra della Festa del cinema di Roma, poi programmatore e per un anno anche co-direttore del Festival di Taormina. Dal 2015 è corrispondente dall'Italia per la testata britannica Screen International. È docente del master di critica giornalistica dell'Accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico, ha pubblicato con UTET un libro intervista a Gabriele Muccino intitolato La vita addosso e con Bietti un pamphlet dal titolo "Odio il cinema italiano". Vanta innumerevoli minacce da alcuni dei più titolati registi italiani.
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